Ti fidi di me?

Il naufragio di Crotone è arrivato in questi giorni nelle nostre case come un pugno in faccia, ma cosa facciamo quotidianamente per evitare che accada? Ecco un contributo di Simone Pesucci che pubblico molto volentieri.

Una delle caratteristiche che ci élevano tra le specie animali è la capacità di provare empatia, cioè di poter percepire la sofferenza e il dolore altrui senza che questi ne esprima esternamente i segnali. E’ una capacità meravigliosa, che nel tempo anziché glorificare, abbiamo imparato a contenere sempre più, fino a tradurla nel suo terribile opposto: l’indifferenza. In questi giorni abbiamo assistito all’ennesima tragedia annunciata, un barcone carico di persone che fuggono dai propri paesi sfidando la tempesta su di un mezzo inadeguato e vanno incontro ad un naufragio che causa decine di morti annegati.

Non è la prima volta che accade in questi anni e purtroppo non sarà nemmeno l’ultima.

Stavolta però, abbiamo toccato con mano l’indifferenza del nostro governo che – in un modo che spero verrà chiarito quanto prima – ha ritardato l’invio dei soccorsi impedendo di salvare più vite di quello scarso centinaio che siamo riusciti a recuperare. Lo si legge nel volto sconsolato del marinaio di Crotone che, intervistato, glissa ma fa ben capire che il mancato salvataggio possa non dipendere da un triste caso fortuito. E lo ribadisce un ministro che con incredibile indifferenza afferma che con quel mare non sarebbero dovuti partire.

Come se quelle persone fossero escursionisti amatoriali che avessero valutato male il meteo!! Purtroppo però, quelle non erano persone in gita, ma uomini, donne e bambini che fuggivano da un mondo in rovina, da guerre, da una miseria di cui non abbiamo più alcuna memoria; fuggivano per dare un futuro ai loro figli. E non hanno trovato empatia, ma il suo terribile opposto, cioè il velo dell’indifferenza. L’indifferenza non soltanto di chi ci governa ma anche dell’intera Europa, perché più una cosa è distante, meno rumore e paura fa; ed allora paesi più lontani di noi da quelle coste hanno ancora meno empatia, ancor più indifferenza. Oggi possiamo piangere e parlarne quanto vogliamo, ma non è il dialogo che cambierà le cose. Già adesso, già ora mentre scrivo e ora, mentre voi leggete, altre navi, altre donne e uomini e altri bambini stanno in mezzo al mare. Stanno rischiando la vita per fuggire.

Possiamo provare a capire da cosa fuggono, possiamo provare ad aiutarli a casa loro, possiamo per un attimo smettere di crederci colonialisti dell’800 e dare loro la stesse possibilità che abbiamo noi, possiamo accoglierli veramente, integrarli, riconoscere loro la cittadinanza italiana, europea, dar loro una nuova casa.

Oppure no.

Possiamo continuare a scegliere di negare una delle qualità che ci elevano rispetto agli altri animali, lasciarli morire ogni giorno, sperare che smettano, sperare di smettere di leggere queste notizie, restare indifferenti.

E magari commuoverci per la scomparsa di un anziano iscritto alla P2.

Perché aveva una gran bella camicia.

Il talento – parte quinta

Abbiamo dunque terminato la quarta tappa del nostro viaggio dentro il talento, sottolineando l’importanza della maggior accuratezza, da parte della Federazione, della scelta del peso e della dimensione della palla a seconda dell’età del bambino.

E’ chiaro dunque che la naturalezza con cui un bambino può governare l’attrezzo è una condizione necessaria al raggiungimento del divertimento nello sport che si pratica. Ma una volta trovata la dimensione giusta della palla, qual è la cosa più importante per il nostro bambino che inizia a giocare a calcio? Siamo sicuri che l’allenamento sia sufficiente a sfamare la voglia di calcio? Siamo certi che le partitelle tra compagni a fine seduta, i calci di rigore battuti per sfida, i tiri in porta alla ricerca della rete, bastino a placare l’istinto di emulazione e la voglia di superarsi che ogni bambino ha dentro sé stesso? La risposta è tanto semplice, quanto scontata: NO! Ogni bambino, ogni ragazzo, ogni persona che ha cominciato a giocare a calcio, come ciascun bambino inizi a praticare un altro sport, ha l’ambizione e la volontà di misurarsi con gli altri in una partita di calcio, di basket, in una gara di corsa, in un salto in pedana. Ogni uomo, e dunque ogni bambino, è istintivamente competitivo ed ha come obiettivo personale quello di superare gli altri e vincere. Negli sport di squadra, che io da sempre prediligo, le gioie ed i dolori, così come gli applausi e le delusioni, vengono suddivise tra tutti i protagonisti e dunque è più semplice coinvolgere tutti i bambini e non far sentire loro il peso della eccessive responsabilità, ma comunque il momento della partita o della gara è il fulcro della propria attività. Sia che lo si prenda come verifica del lavoro svolto durante la settimana (come dovrebbe essere all’interno delle scuole calcio), sia che si veda invece come la volontà di superare gli avversari, è la partita ciò che dà senso a tutto il resto. Senza la partita, senza il confronto tra squadre, tutto è bello ma incompleto.

Perché questa premessa direte voi? Semplicemente perché fino alla svolta culturale degli anni Novanta di cui stiamo parlando in questi approfondimenti, a tanti bambini era negato il diritto alla partita settimanale, al confronto, al divertimento. Anche io, come il mio amico fraterno Simone, ho passato alcune domeniche mattina in panchina a guardare gli altri giocare. Allenarsi tutta la settimana, aspettare le convocazioni dell’allenatore, fare un viaggio in macchina pensando a come andrà la partita e poi…tornare a casa senza aver giocato nemmeno un minuto! E non si parla di ragazzi di 14, 15 o 16 anni a cui puoi spiegare le motivazioni tecniche, tattiche o fisiche, ma di bambini di 7 o 8 anni che vengono a fare sport per divertirsi, per stare con i propri amici, per sentirsi accettati. La regola per cui nelle categorie della scuola calcio è obbligatorio che tutti i bambini giochino almeno un tempo di gara ha rappresentato un passo avanti enorme non tanto e non solo in ambito sportivo, ma soprattutto in ambito sociale. Pensate a quanti bambini possono essere stati presi in giro o emarginati perché all’interno di un gruppo non ritenuti all’altezza di far parte della squadra. Se l’allenatore per primo non prendeva in considerazione quel bambino, vi immaginate cosa poteva accadere dentro uno spogliatoio di soli bambini? Ecco che si torna per l’ennesima volta all’importanza che riveste il calcio, che riveste qualunque sport: veicolo di integrazione, di socializzazione, di rispetto tra diversi. In questo caso si può dire che una piccola regola ha rivoluzionato il modo di gestire il gruppo squadra ed ha restituito alla scuola calcio quella funzione sociale che purtroppo era spesso stata smarrita.

Tale obbligatorietà ha portato poi alcuni cambiamenti anche nella considerazione stessa delle gare. La stragrande maggioranza delle società e degli istruttori, sceglievano e scelgono tutt’ora la strada delle squadre abbastanza omogenee. Mi spiego meglio: avendo in un gruppo squadra alcuni bambini più avanti fisicamente, tecnicamente o anche solo nello sviluppo psicomotorio, in una gara di 3 tempi vengono impiegate tre formazioni di un valore più o meno omogeneo. Talvolta però può accadere che determinate società che hanno più squadre, o determinati istruttori che vogliono lavorare in maniera diversa, tendano a creare squadre o formazioni di “Serie A” e squadre o formazioni di “Serie B”. Ecco che anche in questo caso, si è cercato di ovviare a ciò considerando, ai fini del risultato, ogni tempo come fosse una partita e non facendo classifiche basate sui risultati del campo in modo da cercare di limitare l’esasperazione di certi personaggi che ancora oggi gravitano anche all’interno delle scuole calcio.

L’aspetto fondamentale è stato dunque quello di dare a tutti l’opportunità di giocare la partita e di offrire a tutti i bambini un tempo sufficiente a divertirsi, a sentirsi protagonisti, a migliorare la propria autostima e perché no le proprie capacità tecniche e fisiche. Nella prossima puntata, scenderemo maggiormente nel dettaglio tecnico per cercare di capire il perché di certe scelte operate dalla Federazione e dalle scuole calcio del territorio.

Manuale di integrazione

“Adesso come facciamo a farli socializzare?” Quante volte abbiamo sentito questa domanda!

Quando sono stato la prima volta a Londra, nel 1995, ricordo che il mix di culture, colori, odori, look, pettinature, mi colpì profondamente. Mi colpì ancor più del Tower Bridge, del museo delle cere, del cambio della guardia a Buckingham Palace, di Harrod’s, dello stadio di Highbury. Dopo aver provato con mano la forza e la bellezza della mescolanza tra culture diverse, promisi a me stesso che mi sarei impegnato a trasmettere messaggi di integrazione con gesti, parole ed azioni.

Negli anni universitari poi, ho avuto la fortuna ed il privilegio di lavorare, su incarico della FIGC, nelle scuole materne e primarie di Firenze facendo l’insegnante di attività motoria. Mi è capitato spesso di svolgere la mia attività nelle scuole di confine, dei quartieri meno agiati della città come Brozzi o Peretola. Zone difficili in cui quella stessa combinazione di più culture, idiomi e sistemi di vita, rischia di essere un limite anziché una straordinaria ricchezza.

Perché dico tutto questo?

Una delle prime scuole in cui ho lavorato, mi aveva affidato, tra le altre, una classe di 24 bambini il cui gruppo era molto disomogeneo poiché era composto da 15 bambini italiani, 6 bambini cinesi e 3 bambini del Nord-Africa. Se non bastasse la difficoltà ad approcciarmi ad una nuova classe ed a farlo come insegnante di attività motoria (dunque visto solamente come il ragazzo che viene a farci giocare a pallone), la comunicazione tra me ed il gruppo classe e quella tra bambini era particolarmente complicata. Dei 6 bambini cinesi ad esempio, 2 erano già integrati, mentre 4 non parlavano italiano anche se capivano qualcosa e lo stesso problema era riscontrabile con i bambini marocchini e tunisini.

Ricordo ancora che l’inizio della prima lezione fu la più faticosa della mia vita. I primi 20 minuti li passai in cerchio provando a presentarmi, a far capire loro quello che avrei voluto fare insieme, tentando di comprendere i loro nomi. Sudavo perché mi rendevo conto che la classe non era coesa e non riuscivo ad avere la loro attenzione. I bambini iniziavano a spazientirsi, a dividersi in gruppetti e soprattutto stavo completamente perdendo coloro che non conoscevano la nostra lingua. Mentre parlavo avevo una palla in mano e, in segno di nervosismo, iniziai a palleggiarla a terra.

EUREKA!

Tutti i bambini iniziarono a seguire la palla ed io capii immediatamente di aver trovato la chiave. Per di più, anche chi non parlava la nostra lingua ebbe la stessa reazione! Iniziai a proporre, con il solo esempio e senza tante parole, giochi con la palla dividendo la classe in gruppi più piccoli mescolando nazionalità, idiomi, culture. Cinesi, marocchini, italiani tutti dietro ad una palla, lo strumento di integrazione, di comunicazione e socializzazione che mi aprì i cuori dei bambini e formò un vero gruppo classe.

A volte ho sentito persone chiedersi perché la palla sia tonda…..io credo di saperlo: la rotondità non ha spigoli, non fa male, rotola con tutti e su tutti. E’ il simbolo di fratellanza per antonomasia, è il simbolo della terra su cui viviamo, è il simbolo della perfezione.

“Come spiegherei ad un bambino la felicità? Gli darei un pallone per farlo giocare” (Eduardo Galeano)