Il talento – parte tredicesima

Dopo aver esaminato i cambiamenti organizzativi dei campionati del settore giovanile, ed in particolare il salto repentino al di fuori della scuola calcio, in questa nuova puntata della rubrica cercheremo di sottolineare anche gli effetti causati da questi cambiamenti nei confronti delle società più piccole.

Come già accennato nel capitolo relativo alle società professionistiche che prendono parte ai campionati dei bambini, il prezzo più alto viene pagato dalle società di quartiere. La volontà da parte di tutti di partecipare ai campionati migliori, quelli di élite, spinge le società più in vista a rastrellare i bambini più bravi per portarli a giocare tutti insieme. Il concetto di campionati regionali con retrocessioni e promozioni e di campionati provinciali con promozioni a quelli regionali, credo sia assolutamente giusto e necessario. C’è un momento nella vita in cui quelli che si meritano di più, è giusto vengano ricompensati, ma il problema nasce quando le società che hanno permesso a quei bambini di migliorare e crescere, vengono depredate di squadre intere senza alcun indennizzo. Fermo restando la discussione sul cosiddetto vincolo sportivo che approfondiremo nella prossima puntata, ciò che invece voglio sottolineare è il sottobosco che esiste ed è sempre esistito tra le società dilettantistiche. I direttori sportivi cercano di invogliare i bambini delle società concorrenti per farli andare a giocare nella propria squadra, spesso promettendo chissà cosa: non soldi, ci mancherebbe! Ma molti scommettono sull’arrivismo dei genitori raccontando di conoscere osservatori che magari potrebbero mettere nel mirino il figlio giocando in un società più importante o più in vista. Quanti genitori o bambini ci sono cascati? Quanti hanno fatto decine di chilometri più volte alla settimana nella speranza che quel fantomatico osservatore o intermediario vedesse il proprio figlioletto?

Ricordiamoci poi che la distinzione tra campionati regionali e provinciali già tende ad una progressiva selezione all’interno dei campionati e delle rispettive squadre. Allora mi chiedo… ma c’era proprio bisogno di inserire nei campionati regionali anche i girone di élite? Si perché, come se non bastasse la distinzione tra provinciali e regionali, negli ultimi anni abbiamo anche inventato i gironi di élite dei campionati superiori, quasi come se fossero una via di mezzo tra il professionismo ed il dilettantismo, una sorta di Serie D giovanile. Io penso sinceramente che tale campionato abbia un senso (anche se tutto da dimostrare) nella categoria Allievi (14-16 anni) poiché una volta usciti da lì, i ragazzi più pronti potrebbero già essere inseriti nel giro della prima squadra. Ecco allora che un ragazzo che nell’anno successivo potrebbe doversi confrontare in un campionato di Promozione o Eccellenza, è certamente più pronto se ha già fatto un campionato di élite in cui si è confrontato con tutti i ragazzi più bravi della propria regione. Ma nel campionato Giovanissimi (12-14 anni) non ne vedo proprio la necessità. Tanto più che alcuni ragazzi che magari escono dal campionato di élite, saranno “costretti” a cambiare società se vorranno continuare a giocare allo stesso livello perché la propria squadra non ha quella categoria nell’anno successivo. Anche perché altro frutto malato di questo meccanismo è che tende fortemente all’autoconservazione: le squadre che giocano il girone di élite sono sostanzialmente quasi sempre le solite poiché inizialmente hanno attirato i ragazzi più bravi grazie alla propria affiliazione con società professionistiche. Grazie a ciò hanno vinto i campionati nelle stagioni passate ed adesso, in forza di quel titolo, riescono a strappare gli adolescenti più bravi alle altre società di vicinato. Insomma un cane che si morde la coda a tutto svantaggio dei più piccoli.

Ma almeno le società di quartiere vengono ricompensate in qualche modo? Lo vedremo nella prossima puntata!

Il talento – parte decima

Dopo aver fatto una carrellata, spero esauriente, sulle trasformazioni positive intervenute nel settore giovanile e scolastico e nella gestione delle scuole calcio fino alla prima decade degli anni 2000, passiamo a parlare di quanto successo negli ultimi anni.

Il grande spartiacque che determina un cambiamento filosofico e culturale nell’indirizzo del Settore Giovanile e Scolastico, è la riforma con la quale si viene a creare “lo sportello unico” per le società tra LND e SGS (https://www.lnd.it/it/la-lnd/storia). La riforma ha tantissimi aspetti positivi per le società che si trovano di fronte finalmente un solo erogatore di servizi ed un unico riferimento con il quale rapportarsi grazie al quale vengono a mancare inutili doppioni. Da tale unione però, viene meno la forza propulsiva di idee e di investimenti del Settore Giovanile e Scolastico stretto tra la Lega Nazionale Dilettanti che detiene la sola organizzazione dei campionati e la FIGC che, non avendo digerito la nuova gestione, non ha più intenzione di investire sulla formazione e sulla cultura del territorio. In questo modo, in pochi anni, si blocca completamente l’evoluzione del rapporto tra calcio e scuola (ancora oggi moltissimi progetti sono quelli dei primi anni 2000), ed anche all’interno delle scuole calcio viene sempre meno la capacità di innovazione e di rinnovamento sia delle persone, che delle metodologie di allenamento. Tale impoverimento permette a vecchi vizi e stereotipi di riaffiorare e di reintrodursi all’interno delle scuole calcio.

Fortunatamente ci sono ancora validissimi tecnici federali che si fanno in quattro per non soccombere, ma il vento è decisamente cambiato. Ci sono diversi campanelli d’allarme che sono suonati ormai da anni ma che molti fanno finta di non vedere. Il primo, che secondo me è la fotografia più nitida dell’inversione di tendenza, è la possibilità di far iscrivere le squadre professionistiche nelle categorie più basse della scuola calcio. E’ ormai considerato normale che, ad esempio in Toscana, le squadre di quartiere della categoria Pulcini (8-10 anni) debbano misurarsi con Fiorentina, Empoli, Livorno etc, con queste ultime che sono già selezioni di bambini che vengono anche da fuori provincia. Tale facoltà ha diversi aspetti assolutamente negativi: innanzitutto i bambini iniziano a trascurare ciò che sarebbe più importante in questa fascia di età, cioè la scuola ed il divertimento, ed inoltre le piccole società si vedono sottrarre i bambini più bravi già in tenerissima età senza che ad esse sia corrisposto alcunché. Trovo sinceramente indecente che tutto ciò sia permesso prima dell’ultimo anno di esordienti (12 anni) che reputo essere il momento giusto per far formare alle società professionistiche le prime squadre. Non ci dimentichiamo che, secondo gli ultimi studi, 1 bambino ogni 40.000 (ripeto uno su QUARANTAMILA!!!) diventa professionista (quindi si parla anche di serie C non solo di idoli strapagati), e spessissimo i bambini che entrano nelle società professionistiche precocemente sono anche i più a rischio abbandono perché, mancandogli il divertimento e la vita normale fuori dal calcio, si stufano prima degli altri se non arrivano a certi livelli. Basti pensare che un bambino di 8 anni in una società professionistica si allena 3 volte la settimana (spesso lontano da casa), più la partita del weekend.

Negli anni il tema è stato dibattuto più volte e le società dilettantistiche si sono fatte sentire, ma la toppa che è stata messa non è assolutamente sufficiente. La soluzione trovata, è stata quella di far giocare i bambini delle società dilettantistiche contro i bambini delle professionistiche di un anno più piccoli. Quindi se la squadra di quartiere gioca con i nati nel 2011, le professionistiche giocheranno con i 2012. Tale espediente è stato pensato per rendere le partite più equilibrate, ma ha creato altri due problemi. Innanzitutto le società professionistiche hanno iniziato a prendere i bambini di un anno più piccoli, e poi le gare vengono giocate con molta più animosità perché i bambini (e soprattutto gli allenatori) con la maglia viola, azzurra o granata, non accettano nemmeno lontanamente l’idea di poter perdere o pareggiare con le squadre “da giardini”.

Ma per i professionisti i favori non sono finiti: pensate che esiste anche il campionato esordienti professionisti. Aldilà dell’evidente ossimoro esistente nella dicitura “esordienti professionisti”, essendo questa una categoria della scuola calcio NON HA SENSO DI ESISTERE!! O è scuola calcio, o è professionismo….i due concetti insieme non possono stare!!! Volete dire alle squadre professionistiche ed ai loro allenatori che la partita non ha risultato? Che lo scopo della gara è dimostrare ciò che hanno imparato in settimana senza badare al risultato? L’unico aspetto positivo è che giocando fra di loro, le piccole squadre di quartiere non rischiano di imbarcare goleade controproducenti, ma per il resto proprio non ci siamo!

Nel prossimo appuntamento poi, vedremo che tali indirizzi purtroppo non esistono solamente tra le società professionistiche ma purtroppo, seppur con un peso decisamente minore, anche nei campionati di settore giovanile a cui partecipano le società dilettanti. Alla prossima!!

Il talento – parte sesta

Dopo aver approfondito la tematica relativa al diritto di ogni bambino di giocare almeno un tempo di gara dei tre che compongono una partita della scuola calcio, oggi passeremo a trattare la materia fondamentale degli spazi di gioco. Secondo alcuni dei miei maestri calcistici (come il Mister Stefano Dini), il babbo e la mamma del gioco del calcio sono il tempo e lo spazio e dunque, considerando che il tempo di gioco è un aspetto che si allena soprattutto grazie al riprovare continuamente le situazioni di gara, diventa imprescindibile fare muovere i bambini in uno spazio consono alla loro età.

Ricorderete certamente come nel secondo appuntamento di questo viaggio vi abbia raccontato i miei inizi calcistici quando mi dovevo confrontare non solamente con bambini più grandi, ma anche con spazi che sembravano infiniti. Diversi studi portati avanti fin dalla fine degli anni Ottanta hanno dimostrato che il talento, e con esso la tecnica calcistica, prospera laddove il bambino ha la possibilità di toccare tantissime volte il pallone nelle più disparate condizioni di gioco. Ecco allora che, partendo da ciò, si è iniziato a pensare quale fosse il modo migliore per coinvolgere maggiormente il bambino e per aumentare il numero dei tocchi di palla. Fu chiaro fin da subito che il bambino deve avere dei mezzi e degli spazi adatti alle proprie dimensioni: non solamente il pallone del numero 4, non solamente delle porte con dimensioni più piccole (come  quelle di 4 metri di larghezza per 2 metri di altezza), ma anche uno spazio a misura di bambino. Ecco allora nascere l’idea di giocare su di un campo ridotto con un numero più piccolo di partecipanti.

Non pensate però sia stato un passaggio culturale semplice! Ricordo ancora che quando la Federazione Italiana Giuoco Calcio introdusse il nuovo regolamento con il calcio a 5 ed il calcio a 7 (mentre il calcio a 9 è arrivato successivamente), diversi Entri di Promozione Sportiva continuavano ad organizzare campionati o tornei di calcio a 11 anche per i più piccoli perché solo quello era il “vero calcio”! Non si riusciva, o non si voleva vedere che la piccola rivoluzione in atto non faceva altro che accrescere la partecipazione del singolo bambino al gioco ed il suo grado di soddisfazione! Venne inserito dunque, all’interno dell’attività della scuola calcio, il calcio a 5 ed il calcio a 7 per le categorie più piccole, mentre lo step successivo fu appunto quello del calcio a 9; quest’ultimo arrivò poiché ci si accorse che lo scalino tra il calcio a 7 e quello ad 11 risultava spesso difficilmente digeribile soprattutto da quei bambini più indietro dal punto di vista tecnico e motorio. Il salto da un tipo di calcio a quello successivo era troppo grande sia per le mutate dimensioni del campo (dunque lo spazio), sia per le diverse situazioni di gioco (dunque il tempo).

Lo straordinario successo del cosiddetto “nuovo calcio” è stato certificato da moltissimi studi che hanno paragonato il numero dei tocchi della palla, quello dei tiri in porta, quello dello spazio percorso dai bambini. Le condizioni più a misura dei piccoli calciatori, hanno donato nuovo entusiasmo per il ritrovato protagonismo: molti più tocchi della palla, molti più dribbling tentati, tanti tiri in porta effettuati permettevano ai bambini di migliorare molto più velocemente sia dal punto di vista tecnico che motorio. Ciò che poi molti sottovalutano troppo spesso, è l’impatto che la nuova forma di gara ha avuto sulle sedute di allenamento. Fino ad alcuni anni prima, anche le sedute settimanali ricalcavano gli spazi ed i tempi del calcio a 11. Dunque il bambino piccolo non solo veniva mortificato nel proprio entusiasmo in occasione della gara domenicale, ma anche durante la settimana quando si scimmiottava una partita che però era adatta solamente ai bambini che erano già molto avanti. Diveniva così sempre più grande la differenza tra coloro che già erano bravi e pronti per praticare questo sport ed i bambini che invece avevano bisogno di più tempo per imparare il gesto tecnico e per migliorare le proprie capacità coordinative. Ridurre dunque gli spazi di gioco ha certamente aiutato i meno abili ad avere un rapporto più continuo con la palla e con il proprio corpo, senza svantaggiare i più bravi che hanno avuto la possibilità di rinforzare le proprie capacità tecniche anche in spazi ristretti. Quante volte abbiamo visto ragazzi che dominavano le partite solo ed esclusivamente perché più grandi fisicamente, più avanti nello sviluppo? Spesso però, avvantaggiati dal campo grande, quegli stessi bambini non prestavano la necessaria attenzione agli aspetti tecnici del gioco poiché non ne avevano bisogno per primeggiare. Giocare in spazi stretti, con più bambini in un fazzoletto di campo, costringe tutti a giocare 1 contro 1, a migliorare il gesto tecnico per non farsi rubare la palla, a migliorare la soglia di attenzione. Non è forse questa la scuola calcio?

Nella prossima puntata, focalizzeremo l’obiettivo sui risvolti che tali cambiamenti hanno avuto anche nei rapporti con le altre istituzioni, in primis la scuola.

Il talento – parte quarta

A pochi giorni dalla scomparsa del calciatore dotato del più grande talento della storia del gioco, risulta difficile descrivere con le parole come poter aiutare i bambini a svilupparlo attraverso gli allenamenti e le metodologie.

Se a qualcuno interessa, io penso che Diego Armando Maradona sia stato il più grande calciatore in assoluto per due motivi fondamentali. Il primo è che, a differenza di Pelé (perché è con lui che si gioca il gradino più alto del podio), ha giocato e vinto nei due continenti più importanti per il calcio: ha fatto grande il Boca Juniors, dopo essere nato nell’Argentinos Juniors, in Sudamerica, poi si è trasferito in Europa ed ha vinto con il Barcellona (missione fattibile), ma soprattutto ha trionfato in Italia ed in Europa con il Napoli, facendo conoscere quella città e quei tifosi al mondo intero. Il secondo motivo che lo rende immortale, è che ha vinto un mondiale sostanzialmente da solo in Messico nel 1986. Mentre Pelé giocava in una nazionale che rappresentava l’elite assoluta del calcio in quel momento e che forse avrebbe vinto anche senza O’ Rey, l’Argentina dell’86 non sarebbe probabilmente arrivata nemmeno ai quarti di finale. Maradona ha fisicamente preso per mano una squadra, una nazionale, un paese, un popolo.

Lasciando da parte il più grande, torniamo  a parlare dell’inizio del cambiamento culturale che avviene negli anni 90 in Italia nelle metodologie di allenamento delle scuole calcio. Tale svolta è sostanziale oltre che filosofica poiché cambia l’approccio dell’allenatore nei confronti del bambino. Innanzitutto il mister o l’allenatore inizia a chiamarsi istruttore poiché non ha polli da allevare, ma bambini da formare attraverso un’attività motoria che deve essere, soprattutto nella fascia dei bambini più piccoli, assolutamente ludica. Ciò che cambia  il volto alle scuole calcio che dapprima recepiscono questo scatto culturale, è il rovesciamento del metodo di apprendimento del bambino: si passa dal metodo deduttivo al metodo induttivo o comunque, si inizia a miscelarli in modo più deciso. Io credo fermamente all’alternanza dei due metodi perché penso che, ad esempio nell’allenamento del gesto tecnico, sia molto importante l’esempio dell’istruttore nella cura e nella ripetizione del gesto. Ma siamo sicuri che quel gesto tecnico sarà poi utilizzato dal bambino prevalentemente in situazioni da fermo e, magari, senza avversario? La chiave di volta è capire che il calcio è uno sport di situazione e dunque il bambino deve essere preparato ad interpretare quel gesto tecnico nelle condizioni più disparate. Ma è possibile per un istruttore preparare il bambino ad ogni singola situazione del gioco del calcio, o almeno al maggior numero di esse? Credo proprio di no! Ed allora, una volta che il bambino avrà imparato la meccanica del gesto, sarà fondamentale fargli sperimentare direttamente l’utilizzo di quei gesti tecnici nelle situazioni di gioco. Il metodo induttivo permette al bambino di saper gestire l’arresto della palla o la sua conduzione in situazioni diverse perché, attraverso l’esperienza di gioco, riconosce le difficoltà ed interpreta la situazione a seconda dell’esperienza vissuta e dello spirito di adattamento che tutti noi abbiamo.

Ecco allora che la libera esplorazione, la libera interpretazione dei bambini rispetto ai gesti tecnici, è certamente un percorso più lungo e tortuoso ma che lascia segni più duraturi poiché, una volta che il bambino è in grado di riconoscere la situazione, riesce anche ad individuare la soluzione. La scuola calcio, poiché non deve rincorrere i risultati, dovrebbe proprio mirare alla crescita individuale del bambino sia dal punto di vista tecnico, che motorio ma soprattutto cognitivo ed il metodo induttivo è quello che lo aiuta maggiormente all’apprendimento!

Tutto ciò di cui abbiamo parlato però, non può avvenire senza che i bambini possano toccare e curare l’attrezzo con la forza della propria età. Tanto per tornare nuovamente indietro ai miei primi anni da “calciatore”, ricordo ancora che giocavamo con il pallone regolamentare, quello del n. 5 anche a 6 anni!! Uno dei ricordi più nitidi che ho di quegli anni, è il momento in cui iniziava a piovere ed il campo diventava piano piano una risaia (altro che erba sintetica!!!): il pallone, inzuppandosi di acqua e di fango, assumeva sempre più la forma ed il peso di una zucca di Halloween e per noi piccoli giocatori fare un passaggio di più di un metro diveniva assolutamente impossibile. Campo enorme, palla pesantissima, compagni ed avversari più grandi….ma chi me lo ha fatto fare? Fortunatamente, una delle prime modifiche regolamentari introdotte nelle scuole calcio è stata la sostituzione del pallone del n.5 (quello della Serie A per intendersi), con il pallone del n. 4 (di circonferenza e peso ridotto) ed addirittura con quello del n. 3 (spesso anche in gomma invece che di cuoio) per i bambini della fascia più piccola della scuola calcio.

Volete mettere la soddisfazione per un bambino che arriva a calciare, di vedere la propria palla volare verso la porta avversaria anziché vederla fermarsi a poca distanza senza nemmeno raggiungere il portiere? Senza poi considerare che le dimensioni dei piedi dei bambini sono spesso insufficienti per addomesticare una palla del n. 5. Sono dettagli, piccolezze, che però fanno la differenza tra uno sport a misura di bambino ed uno sport solo a misura di adulto. Considerando che la popolarità e la forza di uno sport è la base della piramide (perché se i bambini smettono di giocare a calcio, questo sport muore!!) credo sia stata una scelta semplice ma rivoluzionaria allo stesso tempo.  

Ci vediamo nella prossima puntata del nostro viaggio, per continuare a scoprire i cambiamenti che hanno portato il calcio di base ad essere quello che oggi conosciamo.