A pochi giorni dalla scomparsa del calciatore dotato del più grande talento della storia del gioco, risulta difficile descrivere con le parole come poter aiutare i bambini a svilupparlo attraverso gli allenamenti e le metodologie.
Se a qualcuno interessa, io penso che Diego Armando Maradona sia stato il più grande calciatore in assoluto per due motivi fondamentali. Il primo è che, a differenza di Pelé (perché è con lui che si gioca il gradino più alto del podio), ha giocato e vinto nei due continenti più importanti per il calcio: ha fatto grande il Boca Juniors, dopo essere nato nell’Argentinos Juniors, in Sudamerica, poi si è trasferito in Europa ed ha vinto con il Barcellona (missione fattibile), ma soprattutto ha trionfato in Italia ed in Europa con il Napoli, facendo conoscere quella città e quei tifosi al mondo intero. Il secondo motivo che lo rende immortale, è che ha vinto un mondiale sostanzialmente da solo in Messico nel 1986. Mentre Pelé giocava in una nazionale che rappresentava l’elite assoluta del calcio in quel momento e che forse avrebbe vinto anche senza O’ Rey, l’Argentina dell’86 non sarebbe probabilmente arrivata nemmeno ai quarti di finale. Maradona ha fisicamente preso per mano una squadra, una nazionale, un paese, un popolo.
Lasciando da parte il più grande, torniamo a parlare dell’inizio del cambiamento culturale che avviene negli anni 90 in Italia nelle metodologie di allenamento delle scuole calcio. Tale svolta è sostanziale oltre che filosofica poiché cambia l’approccio dell’allenatore nei confronti del bambino. Innanzitutto il mister o l’allenatore inizia a chiamarsi istruttore poiché non ha polli da allevare, ma bambini da formare attraverso un’attività motoria che deve essere, soprattutto nella fascia dei bambini più piccoli, assolutamente ludica. Ciò che cambia il volto alle scuole calcio che dapprima recepiscono questo scatto culturale, è il rovesciamento del metodo di apprendimento del bambino: si passa dal metodo deduttivo al metodo induttivo o comunque, si inizia a miscelarli in modo più deciso. Io credo fermamente all’alternanza dei due metodi perché penso che, ad esempio nell’allenamento del gesto tecnico, sia molto importante l’esempio dell’istruttore nella cura e nella ripetizione del gesto. Ma siamo sicuri che quel gesto tecnico sarà poi utilizzato dal bambino prevalentemente in situazioni da fermo e, magari, senza avversario? La chiave di volta è capire che il calcio è uno sport di situazione e dunque il bambino deve essere preparato ad interpretare quel gesto tecnico nelle condizioni più disparate. Ma è possibile per un istruttore preparare il bambino ad ogni singola situazione del gioco del calcio, o almeno al maggior numero di esse? Credo proprio di no! Ed allora, una volta che il bambino avrà imparato la meccanica del gesto, sarà fondamentale fargli sperimentare direttamente l’utilizzo di quei gesti tecnici nelle situazioni di gioco. Il metodo induttivo permette al bambino di saper gestire l’arresto della palla o la sua conduzione in situazioni diverse perché, attraverso l’esperienza di gioco, riconosce le difficoltà ed interpreta la situazione a seconda dell’esperienza vissuta e dello spirito di adattamento che tutti noi abbiamo.
Ecco allora che la libera esplorazione, la libera interpretazione dei bambini rispetto ai gesti tecnici, è certamente un percorso più lungo e tortuoso ma che lascia segni più duraturi poiché, una volta che il bambino è in grado di riconoscere la situazione, riesce anche ad individuare la soluzione. La scuola calcio, poiché non deve rincorrere i risultati, dovrebbe proprio mirare alla crescita individuale del bambino sia dal punto di vista tecnico, che motorio ma soprattutto cognitivo ed il metodo induttivo è quello che lo aiuta maggiormente all’apprendimento!
Tutto ciò di cui abbiamo parlato però, non può avvenire senza che i bambini possano toccare e curare l’attrezzo con la forza della propria età. Tanto per tornare nuovamente indietro ai miei primi anni da “calciatore”, ricordo ancora che giocavamo con il pallone regolamentare, quello del n. 5 anche a 6 anni!! Uno dei ricordi più nitidi che ho di quegli anni, è il momento in cui iniziava a piovere ed il campo diventava piano piano una risaia (altro che erba sintetica!!!): il pallone, inzuppandosi di acqua e di fango, assumeva sempre più la forma ed il peso di una zucca di Halloween e per noi piccoli giocatori fare un passaggio di più di un metro diveniva assolutamente impossibile. Campo enorme, palla pesantissima, compagni ed avversari più grandi….ma chi me lo ha fatto fare? Fortunatamente, una delle prime modifiche regolamentari introdotte nelle scuole calcio è stata la sostituzione del pallone del n.5 (quello della Serie A per intendersi), con il pallone del n. 4 (di circonferenza e peso ridotto) ed addirittura con quello del n. 3 (spesso anche in gomma invece che di cuoio) per i bambini della fascia più piccola della scuola calcio.
Volete mettere la soddisfazione per un bambino che arriva a calciare, di vedere la propria palla volare verso la porta avversaria anziché vederla fermarsi a poca distanza senza nemmeno raggiungere il portiere? Senza poi considerare che le dimensioni dei piedi dei bambini sono spesso insufficienti per addomesticare una palla del n. 5. Sono dettagli, piccolezze, che però fanno la differenza tra uno sport a misura di bambino ed uno sport solo a misura di adulto. Considerando che la popolarità e la forza di uno sport è la base della piramide (perché se i bambini smettono di giocare a calcio, questo sport muore!!) credo sia stata una scelta semplice ma rivoluzionaria allo stesso tempo.
Ci vediamo nella prossima puntata del nostro viaggio, per continuare a scoprire i cambiamenti che hanno portato il calcio di base ad essere quello che oggi conosciamo.