Dopo aver fatto un bel viaggio nell’attività scolastica per conoscere meglio la possibile collaborazione tra la scuola, le federazioni sportive e le società ritorniamo a parlare di attività di base e di scuole calcio all’interno delle quali è possibile scovare e successivamente allenare il talento.
Uno degli scatti culturali che la FIGC ha provato ad inserire nella cultura calcistica italiana, è quello relativo all’importanza del risultato. Il calcio italiano viene da sempre riconosciuto come quello che mira maggiormente al risultato a discapito del gioco, della qualità, dello spettacolo. Chi di noi non si è mai schierato tra il calcio simil-olandese di Sacchi e quello più italianista di Trapattoni? Chi non si ricorda la battaglia di religione tra la marcatura a uomo ed il calcio a zona? Addirittura anche dal punto di vista semantico, la trasformazione del gioco del calcio ha influito sulla terminologia utilizzata. Il terzino destro è diventato difensore esterno, a centrocampo la mezzala si chiama centrocampista interno e così via. La trasformazione che è partita dall’alto, è arrivata anche alla base della piramide ed ha assunto contorni maggiormente culturali.
Fino agli anni novanta infatti, anche nelle scuole calcio era dominante (e purtroppo in alcune lo è ancora) la cultura del risultato. La partita del fine settimana era infatti vista come il punto focale ed in quel frangente si facevano ricadere sui bambini tutte le pressioni e tutte le aspettative che l’istruttore, i genitori, la società, i nonni avevano. La gara dunque assumeva un significato molto lontano da quello della festa, del momento di apprendimento e di crescita per lasciare campo all’unica volontà di primeggiare senza alcun compromesso. Purtroppo spesso si notava che i bambini più indietro tecnicamente e dal punto di vista motorio non avevano lo stesso spazio dei cosiddetti più bravi proprio perché l’unico obiettivo da centrare era quello della vittoria.
Grazie ad un immane sforzo profuso dalla federazione e dai loro dirigenti, negli anni novanta è partita una battaglia culturale che è ancora oggi in corso. Dirigenti, responsabili tecnici, ma soprattutto formatori ed istruttori federali sul territorio hanno iniziato un percorso che ancora oggi è in itinere. La rivoluzione culturale portata avanti è stata quella di cambiare la rappresentazione della partita. La gara tra due o più squadre che si gioca nel fine settimana, non è finalizzata al risultato, ma all’apprendimento. La partita è un momento di verifica, un momento di confronto all’interno del quale l’istruttore deve innanzitutto controllare se il processo di apprendimento dei bambini nei confronti del lavoro svolto in settimana ha ottenuto i risultati sperati. Il tecnico ha dunque il compito di giudicare non tanto i bambini, quanto il proprio lavoro! Se gli obiettivi delle sedute settimanali non sono stati raggiunti, deve interrogarsi sui motivi e soprattutto ha il compito di cercare un metodo diverso per arrivare allo scopo. Nasce dunque un processo virtuoso tra istruttore e bambini attraverso anche un confronto che arricchisce sia i piccoli atleti, che il tecnico.
Tante volte capita che un obiettivo non sia stato centrato perché magari è stata messa l’asticella troppo in alto, oppure è stato proposto un lavoro con una metodologia sbagliata. La risposta si può averla solamente guardando i bambini, il loro modo di allenarsi, i loro risultati motori e tecnici. Credete sia possibile riuscire ad analizzare tutti questi aspetti se si guarda solamente al risultato? Credete che guardare solo alla vittoria o alla sconfitta permetta di coinvolgere tutti i bambini? Come possiamo dare la stessa soddisfazione di giocare a tutti i bambini se cerchiamo sempre e solo di vincere? Non sarà molto probabile che i bambini più bravi giochino di più di quelli meno bravi? Qui si apre dunque il vaso di Pandora! Vogliamo fare gli istruttori di una scuola calcio o gli allenatori di una squadra professionistica? Sono entrambi mestieri bellissimi e dignitosissimi, ma hanno approcci, metodologie ed obiettivi completamente diversi.
La nuova visione della partita come momento di verifica ha anche ottenuto un altro risultato: la diminuzione della tensione e dell’esasperazione nei comportamenti dentro e fuori dal campo. Ricordo ancora che quando ero bambino, anche nelle scuole calcio esistevano le classifiche, i premi per i capocannonieri, le premiazioni solo per chi vinceva. Fortunatamente sembra passata un’era geologica: quando i bambini vanno a fare i tornei vengono tutti premiati, anche se la classifica esiste sempre. Nei tornei federali invece, non esiste un punteggio finale della gara (o comunque dipende da più fattori come già spiegato in un altro episodio della rubrica) ed anche le classifiche sono relative all’attività di tutta la scuola calcio ed hanno parametri ben precisi. L’assenza di risultato è stata poi accompagnata da un altro cambiamento che ha contribuito ad abbassare la tensione: l’arbitraggio è affidato ad un dirigente di una società, oppure agli stessi bambini con la formula dell’autoarbitraggio. Quest’ultima è la vittoria più grande contro tutti quelli che dicono che i bambini se non giocano “il calcio vero” non si divertono. Finalmente invece, i bambini giocano un calcio a misura propria: palloni e campi più piccoli, porte adatte ai portieri, numero di bambini ridotto per permettere loro di toccare più volte la palla, assenza di un arbitro ufficiale. Ricordando il mio primo calcio, non è una rivoluzione?
A presto per la nuova puntata!