Il talento – parte quarta

A pochi giorni dalla scomparsa del calciatore dotato del più grande talento della storia del gioco, risulta difficile descrivere con le parole come poter aiutare i bambini a svilupparlo attraverso gli allenamenti e le metodologie.

Se a qualcuno interessa, io penso che Diego Armando Maradona sia stato il più grande calciatore in assoluto per due motivi fondamentali. Il primo è che, a differenza di Pelé (perché è con lui che si gioca il gradino più alto del podio), ha giocato e vinto nei due continenti più importanti per il calcio: ha fatto grande il Boca Juniors, dopo essere nato nell’Argentinos Juniors, in Sudamerica, poi si è trasferito in Europa ed ha vinto con il Barcellona (missione fattibile), ma soprattutto ha trionfato in Italia ed in Europa con il Napoli, facendo conoscere quella città e quei tifosi al mondo intero. Il secondo motivo che lo rende immortale, è che ha vinto un mondiale sostanzialmente da solo in Messico nel 1986. Mentre Pelé giocava in una nazionale che rappresentava l’elite assoluta del calcio in quel momento e che forse avrebbe vinto anche senza O’ Rey, l’Argentina dell’86 non sarebbe probabilmente arrivata nemmeno ai quarti di finale. Maradona ha fisicamente preso per mano una squadra, una nazionale, un paese, un popolo.

Lasciando da parte il più grande, torniamo  a parlare dell’inizio del cambiamento culturale che avviene negli anni 90 in Italia nelle metodologie di allenamento delle scuole calcio. Tale svolta è sostanziale oltre che filosofica poiché cambia l’approccio dell’allenatore nei confronti del bambino. Innanzitutto il mister o l’allenatore inizia a chiamarsi istruttore poiché non ha polli da allevare, ma bambini da formare attraverso un’attività motoria che deve essere, soprattutto nella fascia dei bambini più piccoli, assolutamente ludica. Ciò che cambia  il volto alle scuole calcio che dapprima recepiscono questo scatto culturale, è il rovesciamento del metodo di apprendimento del bambino: si passa dal metodo deduttivo al metodo induttivo o comunque, si inizia a miscelarli in modo più deciso. Io credo fermamente all’alternanza dei due metodi perché penso che, ad esempio nell’allenamento del gesto tecnico, sia molto importante l’esempio dell’istruttore nella cura e nella ripetizione del gesto. Ma siamo sicuri che quel gesto tecnico sarà poi utilizzato dal bambino prevalentemente in situazioni da fermo e, magari, senza avversario? La chiave di volta è capire che il calcio è uno sport di situazione e dunque il bambino deve essere preparato ad interpretare quel gesto tecnico nelle condizioni più disparate. Ma è possibile per un istruttore preparare il bambino ad ogni singola situazione del gioco del calcio, o almeno al maggior numero di esse? Credo proprio di no! Ed allora, una volta che il bambino avrà imparato la meccanica del gesto, sarà fondamentale fargli sperimentare direttamente l’utilizzo di quei gesti tecnici nelle situazioni di gioco. Il metodo induttivo permette al bambino di saper gestire l’arresto della palla o la sua conduzione in situazioni diverse perché, attraverso l’esperienza di gioco, riconosce le difficoltà ed interpreta la situazione a seconda dell’esperienza vissuta e dello spirito di adattamento che tutti noi abbiamo.

Ecco allora che la libera esplorazione, la libera interpretazione dei bambini rispetto ai gesti tecnici, è certamente un percorso più lungo e tortuoso ma che lascia segni più duraturi poiché, una volta che il bambino è in grado di riconoscere la situazione, riesce anche ad individuare la soluzione. La scuola calcio, poiché non deve rincorrere i risultati, dovrebbe proprio mirare alla crescita individuale del bambino sia dal punto di vista tecnico, che motorio ma soprattutto cognitivo ed il metodo induttivo è quello che lo aiuta maggiormente all’apprendimento!

Tutto ciò di cui abbiamo parlato però, non può avvenire senza che i bambini possano toccare e curare l’attrezzo con la forza della propria età. Tanto per tornare nuovamente indietro ai miei primi anni da “calciatore”, ricordo ancora che giocavamo con il pallone regolamentare, quello del n. 5 anche a 6 anni!! Uno dei ricordi più nitidi che ho di quegli anni, è il momento in cui iniziava a piovere ed il campo diventava piano piano una risaia (altro che erba sintetica!!!): il pallone, inzuppandosi di acqua e di fango, assumeva sempre più la forma ed il peso di una zucca di Halloween e per noi piccoli giocatori fare un passaggio di più di un metro diveniva assolutamente impossibile. Campo enorme, palla pesantissima, compagni ed avversari più grandi….ma chi me lo ha fatto fare? Fortunatamente, una delle prime modifiche regolamentari introdotte nelle scuole calcio è stata la sostituzione del pallone del n.5 (quello della Serie A per intendersi), con il pallone del n. 4 (di circonferenza e peso ridotto) ed addirittura con quello del n. 3 (spesso anche in gomma invece che di cuoio) per i bambini della fascia più piccola della scuola calcio.

Volete mettere la soddisfazione per un bambino che arriva a calciare, di vedere la propria palla volare verso la porta avversaria anziché vederla fermarsi a poca distanza senza nemmeno raggiungere il portiere? Senza poi considerare che le dimensioni dei piedi dei bambini sono spesso insufficienti per addomesticare una palla del n. 5. Sono dettagli, piccolezze, che però fanno la differenza tra uno sport a misura di bambino ed uno sport solo a misura di adulto. Considerando che la popolarità e la forza di uno sport è la base della piramide (perché se i bambini smettono di giocare a calcio, questo sport muore!!) credo sia stata una scelta semplice ma rivoluzionaria allo stesso tempo.  

Ci vediamo nella prossima puntata del nostro viaggio, per continuare a scoprire i cambiamenti che hanno portato il calcio di base ad essere quello che oggi conosciamo.

Il talento – parte terza

E’ stato un bel tuffo nel passato il secondo capitolo del nostro viaggio alla ricerca del talento e del suo sviluppo attraverso il movimento, lo sport e più specificamente il gioco del calcio!

Abbiamo, spero, imparato che il bambino che tocca poche volte l’attrezzo, la palla, durante l’allenamento e/o la partita non solo impara meno di coloro i quali sono maggiormente coinvolti, ma rischiano di perdere anche l’entusiasmo e l’amore per il gioco e per lo sport. Spesso infatti, è fortemente sottovalutato l’impatto che le errate metodologie di allenamento hanno in merito al fenomeno dell’abbandono del gioco del calcio. Capita molte volte che i bambini che non si sentono coinvolti nel gioco perdono l’entusiasmo necessario per andare ad allenarsi e dunque a giocare. In fondo in fondo siamo sicuri che il bambino si sia avvicinato al nostro mondo solo perché ha visto Ronaldo, Messi e Lewandowski alla televisione? Oppure si è avvicinato al calcio perché è il gioco più semplice e più democratico del mondo?

La scorsa volta abbiamo detto della facilità con cui si costruisce un campo e si può giocare in ogni condizione (4 giubbotti ed un pallone ed inizia la magia!) ma pensate anche alle caratteristiche fisiche del bambino che gioca a palla o pratica sport: nel basket e nella pallavolo ad esempio, saranno certamente avvantaggiati, almeno inizialmente, i bambini più alti! Nell’atletica leggera, è quasi scontato che i bambini più veloci e slanciati avranno più possibilità di primeggiare visto che si tratta sostanzialmente di uno sport individuale; altri sport come lo sci, l’equitazione o il tennis invece, hanno bisogno di un esborso economico che non tutte le famiglie si possono permettere! Il calcio al contrario, si gioca con una squadra di 5, 7, 9 o 11 calciatori e dunque le gioie ed i dolori si possono condividere con gli altri. Inoltre, è più facile trovare un posto per tutti: dal bambino più alto a quello più basso, dal bambino più atletico a quello un po’ più appesantito, tutti possono avere un ruolo importante all’interno della squadra! Quante volte abbiamo sentito dire che il più piccolino viene impiegato sull’ esterno del campo perché è rapido e sgusciante, oppure che il bambino un po’ più in carne viene posizionato in mezzo al campo perché alcuni compagni possono correre anche per lui ma, essendo dotato di un bel lancio o di un bel tiro in porta può comunque togliersi tante soddisfazioni: in questo modo, quello che in altri sport può essere considerato un handicap, nel calcio diviene solamente una delle componenti della squadra! Non dimentichiamoci poi che, proprio perché il calcio non è così dispendioso economicamente, è spesso stato un fantastico veicolo di integrazione.

La facilità di poter giocare in ogni posto e dunque la semplicità nell’accesso al calcio, permette ancora oggi di scovare il talento vero e proprio in alcuni paesi molto poveri. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a ondate di calciatori che provenivano da posti del mondo prima sconosciuti al grande calcio. Chi non ricorda l’oro della Nigeria alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996? Fino ad allora, i giocatori africani erano ben poco considerati, persi come eravamo nel vecchio continente a guardare solamente all’aspetto tattico del gioco. Negli stessi anni altri grandissimi talenti, seppur di nazionalità europea, erano nati, cresciuti e sbocciati in paesi ex colonie: vogliamo ricordare la Francia campione del mondo del 1998 in cui Zidane, Thuram, Djorkaeff, Henry, Desailly erano tutti figli o nipoti di nativi dei territori coloniali dei transalpini? Negli stessi anni in cui Nigeria e Francia, mettendo in mostra talenti completi (fisici e tecnici), dominavano le manifestazioni calcistiche più importanti del mondo, in Italia si continuava a discernere tra la difesa a zona e quella a uomo, tra il 4-4-2 ed il calcio con il trequartista. Culturalmente però, eravamo già in netto ritardo rispetto al cambiamento dei tempi.

Nella nostra penisola, dopo che negli anni ’80 si era continuato a far giocare in un campo regolamentare anche i bambini più piccoli con le squadre contrapposte 11 contro 11, all’inizio degli anni ’90 inizia a germogliare un pensiero di cambiamento. Sulla scorta di studi basati sull’osservazione dei bambini frequentanti le scuole calcio e le attività curriculari nelle scuole di ogni ordine e grado, inizia a cambiare la prospettiva con la quale fare attività all’interno delle società calcistiche e si inizia a percorrere la strada della sperimentazione culturale. Finalmente anche nel calcio, la parola SCUOLA inizia ad avere una centralità progettuale differentemente dagli anni precedenti in cui si pensava solo ed esclusivamente a forgiare calciatori. Ecco che la terribile espressione “nucleo addestramento giovani calciatori” (come se i bambini fossero polli da batteria) usata fino a quel momento, diventa appunto scuola calcio ed il settore della Federazione Italiana Giuoco Calcio che si occupa dell’organizzazione dell’attività e delle metodologie di allenamento delle scuole calcio, inizia a chiamarsi Settore Giovanile e SCOLASTICO. Se volete, potete approfondire questa tematica cliccando sul link: https://www.figc.it/it/giovani/sgs/composizione-settore-giovanile-e-scolastico/storia/

Ecco dunque un primo scatto in avanti sul piano culturale che diventa una scintilla basilare per i numerosi cambiamenti che rapidamente, rispetto alle consuete tempistiche italiane, hanno stravolto non solo le regole del calcio dei bambini (iniziando a giocare in spazi ridotti, con tempi di gioco più corti etc.) ma anche l’approccio degli istruttori nei confronti del nostro sport, delle sedute di allenamento e delle partite, viste sempre più come momento di verifica del lavoro settimanale anziché come pura e semplice competizione.

Abbiamo dunque raccontato ed analizzato un salto in avanti dal punto di visto culturale e sportivo: l’aspetto terminologico in questo caso non è forma, ma è invece sostanza, ciò che piace a noi! Nel prossimo episodio andremo ancor più nello specifico. Vi aspetto!

Il talento – parte seconda

Dopo aver cercato di dare una definizione al talento ed aver provato a distinguere tra questo ed il genio grazie soprattutto ai vostri preziosi contributi, iniziamo a vedere come si può riconoscere ed allenare questo talento. Il percorso salterà dai ricordi personali di un innamorato del gioco del calcio, agli spunti didattici e metodologici appresi sul campo (come calciatore scarso prima e come allenatore un po’ migliore poi), nei corsi di formazione ed aggiornamento che ho dapprima seguito e poi tenuto all’interno del CONI, del Settore Giovanile e Scolastico della FIGC e della Lega Nazionale Dilettanti.

La base del gioco del calcio è certamente il gesto tecnico che richiede conoscenza dell’attrezzo (palla) e capacità di coordinazione dei movimenti. Tale commistione tra capacità tecniche e capacità motorie avviene quasi spontaneamente quando i bambini hanno l’opportunità di giocare ai giardini o per la strada. In tali contesti infatti, si impara come comportarsi nelle più disparate condizioni: sul cemento, sull’erba, in mezzo alle buche, con le radici, con i tombini, con le pozze o con il fango….altro che sul sintetico così perfetto ma così finto! Per riuscire a controllare la palla nelle condizioni naturali, dobbiamo essere in grado di adattare il gesto tecnico a tutta una serie di variabili che il talento riesce spontaneamente a controllare, ma che il bambino meno dotato deve dapprima riconoscere, poi studiare ed infine domare grazie alla scoperta delle opportune contromisure.

Tutto questo però lo si può fare se si tocca tante volte il pallone, se si è protagonisti del gioco, se si ha la possibilità di sperimentare, dunque di provare, di sbagliare, di trovare la soluzione!! Quando ho iniziato a giocare a calcio (avevo poco più di 5 anni), come tutti i bambini che hanno genitori che lavorano, scelsi la scuola calcio più comoda e con la sede più vicina alla scuola che frequentavo. La società per la quale giocavo però, era una piccola realtà di quartiere che non aveva molti bambini per annata e dunque io, nato ad Aprile del 1976, mi ritrovai ad iniziare a giocare con bambini più grandi di me. Ricordo ancora che mi allenavo, io unico bambino del ’76 con il mio fraterno amico Simone, con una squadra mista di bambini nati nel 1975, nel 1974 ed addirittura nel 1973. Credo che solamente il nostro grande amore per il gioco ci abbia permesso di non smettere visto che gli allenamenti vertevano sulla corsa intorno al campo, su esercizi di tecnica individuale da fermo, su tiri in porta da scagliare da distanze per noi siderali e da partitelle in cui non toccavamo pressoché mai la palla.

Ricordo però ancora l’emozione per la convocazione alla prima partita, quando io e Simone fummo chiamati in una squadra in cui avremmo potuto esordire giocando con i nati nel ’75 e nel ’74! Fui schierato nel secondo tempo da terzino destro: ero un bambino di poco più di 6 anni e giocavamo 11 vs 11 in un campo regolamentare da 100 metri di lunghezza per 60 circa di larghezza. Il tempo per me volò perché ero entusiasta ed orgoglioso del mio esordio e della convocazione nella squadra dei più grandi (senza però considerare che quella della mia età non esisteva)! Al termine dei 25 minuti (se non erro) di gioco, sapete quante volte toccai il pallone? Beh…..2!! Di cui una con le mani perché fui incaricato dal Mister di battere una rimessa laterale!! L’altro tocco ricordo fu un rinvio di prima perché ero terrorizzato da questa palla che arrivava verso di me. La squadra in cui giocavo infatti, era più che discreta e dunque attaccammo praticamente sempre: mi è ancora oggi rimasto il dubbio che forse fui schierato terzino destro proprio per questo….Ma vabbè!

A parte ciò, ed a parte l’entusiasmo tracimante con cui tornai a casa, quanto pensate abbia imparato quel giorno? Quanto credete che quella gara sia stata formativa per la mia crescita? Come già detto, il talento e le capacità tecniche migliorano quando ci si trova ad utilizzare la palla ripetutamente in situazioni sempre diverse. Ecco dunque che la risposta è molto, molto semplice: ero contentissimo, ma quella gara è stata forse la più inutile che abbia mai disputato! Fortunatamente dagli anni 90 in poi  le federazioni hanno gradualmente abbandonato il calcio a 11 per i bambini più piccoli e trovo che sia stata una delle decisioni più sensate che sia stata presa negli ultimi anni.

Nella prossima puntata inizieremo a vedere quando e come si è provato ad invertire la rotta!

Il talento – Parte prima

Alzi la mano chi tra di voi, appassionati ed amanti del gioco del calcio, non ha sognato almeno una volta di fare il calciatore. E, nel caso affermativo, chi non si è mai immaginato con la maglia numero 10 della propria squadra del cuore. Ma perché proprio con il 10, l’unico numero che ancora oggi racchiude il sogno di essere il più bravo di tutti? Perché il dieci (el Diez) è estro, talento, fantasia, imprevedibilità, sana follia calcistica.

Si è spesso dibattuto sulla natura e sull’origine del talento: citando dal vocabolario, la parola nasce dalla “parabola dei talenti”, che raffigurano e sono simbolo dei doni affidati da Dio ai servi. Già dall’etimologia della parola dunque, si parla di dono, di capacità fuori dal comune regalate da Dio. E’ indubbio che il talento vero, quello raro, è affidato a pochi: quanti sono i calciatori baciati dal talento puro? Eppure tutti i bambini che giocano ai giardini o nelle scuole calcio sognano di diventare i nuovi Messi, Pelè, Maradona, Ronaldo (quello vero), Ronaldo il portoghese, non certo Malusci, Piraccini o Chierico (con tutto il rispetto per i tre ultimi calciatori citati, ottimi professionisti). Anche nel campo delle arti, dai musicisti agli attori fino agli scrittori ed ai cantanti, tantissimi ci provano, tanti riescono a vivere del proprio lavoro, ma pochissimi diventano stelle indiscusse. La differenza tra il mediano ed il trequartista spesso è dovuta al talento, a quella capacità tecnica che permette a determinati calciatori di effettuare lo stesso gesto tecnico in condizioni di difficoltà mantenendo pulizia del gesto ed efficacia nell’esecuzione. Senza scomodare il gol di Maradona contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986 in Messico, ci sono calciatori che riescono a dribblare nello stretto anche di fronte ad un pressing asfissiante, ed altri che preferiscono passare la palla al compagno più vicino. Sono entrambi calciatori professionisti, ma uno è tecnicamente molto più dotato dell’altro.

Tutto ciò per dire che certamente la qualità sopraffina di alcuni è un dono (che poi sia divino oppure naturale lascio a voi la scelta), ma ciò che è certo è che il colpo di genio, la giocata a sorpresa è il motivo per cui milioni di persone guardano il calcio. La serie di articoli che comincia oggi, vuole analizzare il modo in cui negli ultimi anni la tecnica calcistica è stata soppiantata da un tatticismo esasperato e da una sempre maggior importanza della forza fisica nel gioco del calcio. Tale tendenza, studiata e sottolineata con colpevole ritardo, ha visto negli ultimi anni una risposta didattica in controtendenza che parte dalle scuole calcio e che cercheremo di approfondire.

Ciò che intanto possiamo certamente sottolineare è che per esprimere le proprie capacità ed il proprio talento, il bambino o il calciatore affermato ha bisogno del contatto con l’attrezzo, cioè con la palla. Senza un rapporto continuo tra il ragazzo ed il pallone, il calcio diventa solo un’esercitazione tattica o fisica che poco ha a che fare con l’essenza del gioco. Le occasioni di contatto con la palla erano certamente maggiori fino ad almeno 20 anni fa. Quando eravamo bambini noi, era più facile giocare da soli ai giardini con il pallone fino a sera: e non c’erano fasce di età (spesso si giocava con amici, cugini o anche bambini conosciuti per caso ai quali non chiedevamo certo quanti anni avevano), non c’erano casacche (al massimo di estate ci si distingueva facendo levare la maglietta ad una squadra), non c’erano arbitri, non c’erano genitori a dare consigli anche nelle partitelle ai giardini. Siamo cresciuti marziani? Siamo cresciuti con problematiche psicologiche? Ci sentivamo abbandonati? No…semplicemente ci sentivamo liberi…. liberi di esprimere la nostra personalità attraverso un meraviglioso sport di squadra per il quale bastava trovare 4 legni o degli zaini da sdraiare quali pali per le porte ed un pallone da poter calciare o parare!

Alla prossima puntata!!

Diario di un cassintegrato

Non ero riuscito nemmeno a finire di leggere l’ordinanza regionale del neo-Presidente Giani ed il DPCM del Governo Conte che io e quasi tutti i miei colleghi, come tanti altri lavoratori in tutta Italia, eravamo già in cassa integrazione. Un devastante dejà-vu, uno sconfortante salto indietro nel tempo. La cassa integrazione, di nuovo, ancora, un’altra volta: dopo i mesi di marzo, aprile e maggio siamo di nuovo nella stessa situazione con gli stessi timori, le stesse paure, le stesse insicurezze.

Il primo sentimento che si prova quando si viene messi in cassa integrazione, quello più netto, quello che ti mangia dentro è il sentimento dell’inutilità. Quel sentirsi un sovrappiù, un qualcosa di cui si può fare a meno, un oggetto che non si vede l’ora di poter mettere in un frigorifero pronto ad essere tirato fuori in caso di necessità. Il secondo sentimento è quello dell’impotenza, del non poterti opporre ad una decisione che ti arriva addosso e ti entra dentro come l’umidità nei giorni piovosi e nebbiosi di novembre. Ma ciò che ti mangia completamente l’anima è sapere che anche stavolta, come a primavera, il periodo di non lavoro sarà professionalmente del tutto inutile e, nel caso si ripresentasse la stessa situazione, potrai nuovamente trovarti in cassa integrazione. 

Spesso viene detto che i periodi di crisi nascondono delle opportunità. Nel mio caso, durante lo scorso lockdown, mi sono guardato dentro ed ho trovato la volontà e la forza di comunicare tutto ciò che adesso trovate in questo mio blog; sono dunque uscito dal primo periodo sofferente ma certamente più forte e credo anche più completo. Ma tutto ciò è avvenuto solamente grazie a me stesso, non perché qualcuno mi abbia aiutato. Questo periodo di forzata sospensione dal lavoro potrebbe, ed anzi dovrebbe, essere un’occasione di crescita anche dal punto di vista professionale, dovrebbe insomma diventare una risorsa! Potrebbe nascere in queste settimane l’idea lavorativa di domani!

Quante volte abbiamo sentito dire che l’Italia dovrebbe investire nella formazione, nella digitalizzazione, nell’alfabetizzazione digitale? Quale miglior momento di questo? Quale miglior momento di quello che stiamo vivendo? Tutti ci invitano a stare a casa, a limitare gli spostamenti, ad azzerare quasi del tutto i contatti sociali non necessari (come se poi ce ne fossero di contatti sociali non necessari….mica siamo delle piante!!!)

Ed allora che aspettiamo? Non solo lo stato, ma anche le aziende private dovrebbero creare delle interconnessioni tra i dipendenti in cassa integrazione! Stimolino l’apprendimento ad esempio delle lingue, la conoscenza di nuovi sistemi operativi e gestionali, organizzino riunione virtuali su alcune delle migliaia di piattaforme esistenti per fare formazione! In tantissime aziende, sappiamo tutti che l’aggiornamento è demandato solo alla volontà del singolo lavoratore: quale migliore occasione di questa? Il paese sta reagendo a questa seconda ondata in modo assai diverso dalla prima: c’è sfiducia, c’è cattiveria, c’è invidia ed il motivo è semplicissimo anche se nessuno sembra averlo capito…..

LA GENTE NON SI SENTE COINVOLTA, SI SENTE ABBANDONATA A SE’ STESSA!!!

Certo l’aspetto economico è importante, anzi fondamentale ed in questo gli ammortizzatori sociali sono la base della nostra pace sociale: ma davvero credete che la gente vada a lavorare solamente per il giorno in cui si riscuote? Davvero credete che un paese possa diventare la settima potenza mondiale con questa mentalità? L’Italia è diventata grande nel mondo per l’ingegno, le bellezze, le eccellenze…in una parola per la CULTURA!!! L’Italia di domani passa dalla conoscenza, quella conoscenza che permette di capire l’esistente per progettare il futuro. Non sprechiamo un’altra opportunità, pensiamoci adesso!

Ci risiamo? E ora?

Dopo un’estate in cui in troppi hanno pensato che il virus fosse sparito, i dati degli ultimi giorni tornano a preoccupare. Nelle ultime settimane stiamo assistendo ad un’impennata del numero dei contagiati che mette sinceramente paura. Cerchiamo dunque, per quanto possibile, di leggere i dati senza pregiudizi, con il solo obiettivo di capire qualcosa in più.

Innanzitutto dobbiamo dire che il rapporto tra le perone che risultano positive ed il numero dei tamponi è un dato fortemente sopravvalutato nelle discussioni che ascoltiamo ogni giorno. Dobbiamo infatti sempre ricordare che il paziente uscito dalla malattia deve effettuare il doppio tampone con risultato negativo per essere dichiarato guarito e questo inficia nel rapporto matematico tra i dati: lo stesso paziente infatti avrà due tamponi negativi e ciò non permette un rapporto matematico paritetico con la persona positiva, che invece ne effettua solamente uno. Ciò detto, è però assolutamente innegabile che la percentuale di asintomatici è più alta rispetto ai mesi di marzo e aprile e la capacità di curare i sintomi della malattia è certamente aumentata. Questa considerazione non deve però MAI far sottovalutare la situazione che stiamo vivendo. Il virus continua a circolare e sta a noi quantomeno cercare di limitarlo con comportamenti corretti.

I dati degli ultimi giorni inducono dunque alla preoccupazione per la crescita continua ed inesorabile dei positivi. Ciò che lascia ben sperare è che i ricoverati in terapia intensiva sono un decimo rispetto al picco massimo (circa 400 contro 4.000) e che i medici adesso sanno come trattare fin da subito la malattia. Il problema è che nelle ultime settimane la crescita si sta rivelando esponenziale e sembra non arrestarsi. La fortuna è che i posti in terapia intensiva sono quasi raddoppiati rispetto a marzo, la sfortuna è che iniziano ad esserci diversi contagiati anche nelle regioni del sud che nella prima ondata sono state meno colpite e che purtroppo sono storicamente meno pronte nelle strutture dei distretti sanitari. Se la tendenza si confermerà, sarà fondamentale spostare i pazienti tra regioni, dal sud al nord del paese, per poter curare tutti tempestivamente.

Il governo Conte ha indubbiamente gestito bene, dopo alcuni errori iniziali dovuti alla scarsa conoscenza del virus, la prima ondata prendendo decisioni dure ma necessarie. Ha sempre preferito la salute pubblica all’economia, ma tutti sanno che la scelta non potrà essere replicata. I lavoratori, le aziende, i gestori dei locali non potrebbero sopportare nuove chiusure generalizzate pena il rischio di fallimento. Sarebbe dunque imperdonabile farsi trovare impreparati adesso se dovesse arrivare una vera e propria seconda ondata. L’Italia è citata da tutti, organi di stampa e governi internazionali, quale esempio nella gestione della pandemia: tali capacità di gestione dovranno essere confermate e rafforzate nei prossimi mesi, altrimenti sarà stato tutto vano. In questi giorni è atteso il nuovo DPCM, torneremo dunque a parlarne.

I medici, gli infermieri, il governo, le regioni e tutti gli amministratori devono remare dalla stessa parte e collaborare al benessere pubblico. Ciò che però non potrà e non dovrà MAI mancare è la responsabilità di tutti i cittadini: il popolo italiano si è dimostrato eccezionalmente disciplinato durante la prima ondata della pandemia, non possiamo e non dobbiamo mollare adesso!!!

METTIAMO LA MASCHERINA, SEGUIAMO LE REGOLE E MANTENIAMO LA DISTANZA!!

SE NON VOGLIAMO FARLO PER NOI STESSI, FACCIAMOLO ALMENO PER I NOSTRI CARI!!!

I PROSSIMI MESI DIPENDONO INNANZITUTTO DA NOI!!!

Un grande ritorno?

Le indiscrezioni degli ultimi giorni stanno diventando realtà, Borja Valero torna ad indossare la maglia viola!

Sarà necessario scindere l’aspetto tecnico da quello cosiddetto “sentimentale” che molti tifosi dimostrano di provare ancora per il calciatore spagnolo, per scrivere questo articolo. Parlando di calcio, Borja Valero è legato ad uno dei periodi più belli della gestione Della Valle: la prima Fiorentina di Vincenzo Montella, quella del possesso palla, del divertimento, della sfrontatezza su tutti i campi, della rimonta con la Juve. Borja ha convinto fin da subito i fiorentini grazie ad una eccezionale commistione tra le doti tecniche, assolutamente sublimi, e lo spirito di sacrificio dimostrato in ogni singola partita. L’aspetto fisico poi, più simile ad un impiegato delle poste o dell’ufficio delle entrate, ha fatto il resto. Tutti si sono impersonificati in un uomo arrivato in silenzio che senza tanti titoloni e senza tante chiacchiere ha dettato legge nel centrocampo viola per diversi anni. Se a questo poi uniamo il sentimento nei confronti della città che ha dimostrato più volte sui social network insieme alla sua famiglia, Borja Valero è diventato un beniamino ed un leader dentro e fuori dal campo, tanto da venir soprannominato “sindaco”. Ciò che però dobbiamo considerare, è che il Valero che torna adesso, non è più quello di alcuni anni fa. Porta sulle spalle il peso di quasi 36 anni, anche se nell’ultima stagione all’Inter ha dimostrato di essere fisicamente ancora integro. Se già prima non era un fulmine, adesso lo è ancora di meno e probabilmente anche per questo Conte lo ha utilizzato molto spesso davanti alla difesa: la speranza è che il suo ritorno non sia simile a quello di Badelj (presentato lo scorso anno da Pradè come “il miglior acquisto della Fiorentina”).  

Credo sia comunque un’operazione intelligente. Indubbiamente il calciatore ha spinto e spinge per tornare a Firenze, ed è certamente una presenza che nello spogliatoio può aiutare a superare quei momenti difficili all’interno della partita e della stagione che lo scorso anno sono spesso sembrati insormontabili per problemi di leadership. Con Borja Valero, Ribery, Bonaventura la società sta cercando di colmare il gap di personalità con le squadre che nelle ultime stagioni le sono arrivate davanti in classifica. E’ chiaro però che non ci possiamo aspettare lo stesso giocatore di 5 o 6 anni fa. Dovrà essere un uomo di rotazione e non più il fulcro del centrocampo viola.

Quanto all’aspetto emozionale poi, io sono tra quelli che hanno smesso di innamorarsi dei calciatori. Dopo aver visto Batistuta andare a vincere in giallorosso, ho promesso a me stesso che non lo avrei più fatto. Con la maglia viola addosso ci sono solamente due persone che meritano di rimanere eternamente nei cuori dei tifosi come vere e proprie bandiere, Davide Astori e Giancarlo Antognoni. Tralasciando la tragedia del povero Astori, “La luce” è stata l’unica vera bandiera mai ammainata: diversamente da tutti gli altri, ha respinto al mittente ogni tipo di offerta per giocare sempre con la stessa maglia! Ha detto no alla Juve di Agnelli, al Milan di Liedholm ed a tutti coloro che si sono presentati a bussare alla porta. Giancarlo Antognoni è l’unica bandiera che si merita di non essere mai riposta in un cassetto. A differenza di tutti gli altri, ha giocato in maglia viola quando si puntava a vincere, quando si lottava per salvarsi, quando era considerato un peso dalla società senza lamentarsi mai. A qualcuno magari fischieranno le orecchie, ma le vere bandiere sono queste. Tutto il resto è social network, comunicazione, merchandising.

Bentornato Borja Valero!

Che la nuova avventura sia entusiasmante quanto la precedente!

La storia dei grandi portieri viola (parte VII)

Eccoci giunti all’ultimo grande portiere della storia viola, almeno fino ad oggi. Arrivato in Italia grazie all’Inter, la sua grande fortuna è stata l’incontro con Cesare Prandelli che lo ha fatto sbocciare definitivamente prima a Verona, poi a Parma ed infine a Firenze. Idolo delle folle per i suoi atteggiamenti istrionici e le sue acconciature, è sempre stato un professionista esemplare ed un punto fermo anche dello spogliatoio nei momenti di difficoltà. Non riuscirà a vincere nulla in maglia viola ma è ancora oggi ricordato da tutti i tifosi viola come l’interprete di alcune tra le più belle parate mai viste. Sarà già chiaro a tutti che stiamo parlando di

SÉBASTIEN FREY

Arrivato a Firenze dal Parma su precisa indicazione di Cesare Prandelli nella stagione 2005-2006, ha disputato in maglia viola 5 campionati fino a quella 2010-2011. Sono stati anni esaltanti per i colori viola quando, grazie soprattutto alla coesione magnifica che si era creata tra squadra, allenatore, proprietà e pubblico, la Fiorentina divertiva e si faceva rispettare in Italia ed in Europa. Grazie alle sue doti feline tra i pali, nonostante qualcuno continuasse ad obiettare su alcune rotondità di troppo nel fisico, Frey ha vissuto la parte migliore della carriera proprio a Firenze, come lui sempre racconta. Protagonista di 218 partite in maglia viola, è rimasto imbattuto per 71 volte, ossia nel 32,6% delle occasioni. Nelle 218 gare, il portiere francese ha subito 219 reti totali, con una media di 1 gol subito per ogni infilata di guanti. Sotto i capelli ossigenati c’era un grande portiere, oltre che un cuore viola che batteva!

La storia dei grandi portieri viola (parte VI)

Dopo un mostro sacro come Giovanni Galli, la porta viola ha dovuto aspettare alcuni anni prima di trovare un nuovo interprete all’altezza dei predecessori. La società viola vive anche anni burrascosi, tra la cessione di Roberto Baggio alla Juventus ed il passaggio di mano tra la gestione Pontello e quella Cecchi Gori. Le basi per un nuovo ciclo vincente, culminato con Coppe Italia e Supercoppa Italiana, vengono anche dalla scelta di un portiere di poche parole, ma di doti eccezionali. Stiamo parlando di uno dei miei portieri preferiti in assoluto, cioè

FRANCESCO TOLDO

Arrivato a Firenze dal Ravenna nella stagione 1993-1994 (quella delle serie B dopo l’incredibile retrocessione dovuta principalmente all’errata decisione di Vittorio Cecchi Gori di esonerare Radice), per giocarsi la maglia da titolare con la promessa Scalabrelli, Toldo interpreterà il ruolo di portiere viola fino a quella 2000-2001, quando una società già sull’orlo della bancarotta dovette vendere tutti i pezzi pregiati per provare a salvarsi dal fallimento. Fisico imponente, alto e prestante, Toldo non regalava mai nulla allo spettacolo, preferendo sempre badare al sodo. Elastico tra i pali, aveva anche una discreta capacità a far ripartire l’azione con i piedi anche se ancora gli estremi difensori non venivano coinvolti come oggi. Resta impressa nella memoria dei tifosi viola la parata incredibile che il portiere di Padova effettuò sul tiro di Kanu nella gara di Coppa Campioni contro l’Arsenal. Passando ai numeri, Toldo nelle 8 stagioni disputate in maglia viola ha giocato 338 partite rimanendo imbattuto per 121 volte, ossia nel 35,8% delle occasioni. Nelle 338 prestazioni, il portiere della Fiorentina e della nazionale italiana ha subito 374 reti totali, con una media di 1,14 gol al passivo. Pur avendo numeri meno altisonanti di altri, Toldo resta uno dei perni fondamentali della rinascita viola affidata a Claudio Ranieri in panchina: famosissimo il cosiddetto CIRIBE’, come lo volle chiamare il compianto tifoso Mario Ciuffi, cioè quella specie di schema per cui dal rinvio di Toldo la palla arrivava direttamente a Batistuta che poi si occupava di scaraventarla nella porta avversaria.

La storia dei grandi portieri viola (parte V)

Dopo un piccolo interregno che vede impegnati Mattolini e Carmignani, a soli 19 anni esordisce il miglior portiere della storia della Fiorentina dal punto di vista statistico. Mostra fin da subito ottime doti sia tra i pali che nelle uscite e non ha timori reverenziali pur difendendo la porta viola ad una verdissima età e dopo i mostri sacri di cui abbiamo parlato nelle scorse puntate. Non riesce a portare a casa trofei con la maglia viola addosso… Tutti avrete capito che stiamo parlando di

GIOVANNI GALLI

Impegnato tra i pali viola dalla stagione 1977-1978 fino a quella 1985-1986, diventa fin da subito un punto di riferimento anche per lo stile: mai parate solo per i fotografi, sempre attento e concentrato. Dopo di lui per quasi 10 anni i viola cercheranno un degno erede senza però trovarlo. Per descriverne l’impatto credo sia giusto far parlare i numeri incredibili che Galli ha collezionato nelle 9 stagioni disputate da protagonista in maglia viola: 323 gare tra i pali rimanendo imbattuto ben 150 volte (quasi metà delle partite senza subire reti!!), cioè nel 46,4% delle occasioni. Nelle 323 prestazioni, il portiere toscano ha subito solamente 267 reti totali, con una strabiliante media di 0,83 gol presi. Numeri veramente impensabili se si pensa che tutto ciò non è bastato a portare a casa alcun trofeo (anche se lo scudetto della stagione 1981-1982 resta per i tifosi viola una ferita ancora oggi aperta) .